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Sebbene possa sembrare strano, la prima opera di Vivaldi (pubblicata nel 1705) è dedicata alle sonate a due violini (più basso continuo). Al contrario della sonata a violino solo – che sebbene abbia meno strumenti da considerare, è più indicata per autori già sicuri del fatto proprio, per il ruolo maggiormente esposto che deve avere lo strumento solista – quella a due appartiene ad un genere più vicino a quelli che dovevano essere gli studi iniziali di musica dell’epoca. Armonia, contrappunto, etc., trovano infatti terreno ideale di sperimentazione nell’unione di due voci simili, che sono tenute a dialogare senza predominare eccessivamente l’una sull’altra. Nelle sue prime sonate, infatti, Vivaldi è doverosamente debitore dell’insegnamento tratto dalle prime opere del Corelli (debito che successivamente si sentirà affrancato da onorare ulteriormente). Alcuni brani sono un puro ricalco, una sorta di omaggio, delle sonate più mature di Corelli e in ogni caso tutte quelle della raccolta sono ad esse riconducibili per lo stile, l’equilibrio e la grazia, nelle quali è simile la composizione delle due voci, che a volte si imitano, altre volte una delle due disegna variazioni sulla melodia di quella principale, in altre i due violini si stagliano sull’andamento regolare del basso, in una è il basso a partire per primo, etc. Vivaldi non manca di iniziare a sprigionare la sua creatività, come fa per esempio nello splendido ‘bariolage’ dell’allegro della sonata n. 3. A suggello del tutto, come definitivo omaggio al ‘maestro’, la sonata conclusiva è una serie di variazioni sulla Follia, come a voler mettere un punto e voler dire ‘da qui incomincio a fare come dico io’. La successiva opera 2 di Vivaldi è infatti una raccolta di sonate a violino solo, nelle quali l’inventiva si libera sempre più e il ricordo di Corelli si fa sempre più lontano.